Mi sono spesso chiesto da dove venisse
la mia avversione per l’ossessione delle foibe che ha colpito
l’Italia negli ultimi anni. Non che
voglia sminuire questo dramma, anzi credo di essere stato uno dei
primi a denunciare le violenze dei partigiani jugoslavi quando ho
pubblicato un intervista con il poeta sloveno Edvard Kocbek nel
lontano 1975 sulle uccisioni dei collaborazionisti sloveni alla fine
della Seconda guerra mondiale. Infatti, al contrario di quello che si
crede comunemente in Italia, nelle foibe non finirono soltanto gli
italiani, ma i “nemici del popolo” jugoslavo, indipendentemente
dalla loro appartenenza nazionale. Ma l’Italia tende a travisare o
a selezionare la propria memoria storica, lasciando che la passione
nazionale o la volontà politica prevalgano sulla realtà dei fatti.
Proprio il caso delle foibe dimostra che si dovrebbe ricostruire e
rendere noto il fenomeno nella sua complessità, in modo che diventi
il simbolo di tutte le violenze che attraversarono questa terra di
confine dal ventennio fascista all’ultima fase della Seconda guerra
mondiale.
Spesso si dimentica che nella Venezia
Giulia, in Istria e in Dalmazia non esiste soltanto la memoria
italiana, ma anche quella slovena e croata. Nel 2004 l’Italia ha
approvato la celebrazione del giorno del Ricordo, il 10 febbraio, “al
fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli
italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro
terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e
della più complessa vicenda del confine orientale”.
Mi aspettavo che la legge sul giorno
del Ricordo si impegnasse a far conoscere obiettivamente i conflitti
che hanno lacerati queste terre, invece mira alla costruzione di una
memoria unica e parziale, che non esito a definire prettamente
nazionalista, perché denuncia i soprusi subiti dagli italiani e tace
quelli che loro hanno perpetrato.
Eppure il fascismo nella Venezia Giulia
di allora attecchì rapidamente fin dal 1920 e in questa regione
plurietnica la repressione nazionalista colpì duramente le
minoranze, con processi contro gli antifascisti “slavi” da parte
del Tribunale speciale, la proibizione delle associazioni culturali e
politiche, la chiusura delle scuole slovene e croate e
l’italianizzazione forzata, a partire dalla lingua e dai nomi.
Molti, nel resto d’Italia, neppure sapevano dell’esistenza di
comunità slave sul territorio nazionale. Anzi, sotto il fascismo noi
non eravamo considerati una comunità, ma una massa ignorante. La
politica negli anni Venti e Trenta non fu che un preludio alla
violenza che si sarebbe scatenata dopo l’invasione della Jugoslavia
da parte dell’Italia e della Germania nell’aprile del 1941. Fu
nella cosiddetta “Provincia di Lubiana” che l’occupazione delle
forze armate italiane portò alla catastrofe: villaggi bruciati,
esecuzioni sommarie di ostaggi, soprusi contro la popolazione
civile, campi di concentramento. Interi villaggi furono deportati nel
campo di concentramento di Rab (Arbe): dai neonati alle persone
anziane, tutti vivevano sotto delle tende e dormivano sulla paglia
bagnata dalla pioggia. Mancavano acqua e cibo. I bambini morivano di
fame e di freddo e le madri erano così disperate da arrivare a
nascondere i cadaveri dei propri bambini nella paglia pur di non
perdere la razione del figlio.
Di tutto ciò non si fa cenno nella
legge del 10 febbraio. Si vuole ricordare solo quanto è accaduto in
Istria centrale dal 1943 in poi e la questione delle foibe.
Rappresentare la storia a senso unico non è accettabile. E’ chiaro
che questa legge rientra in una prospettiva di riconciliazione
nazionale, ma è altrettanto chiaro che non la si dovrebbe
raggiungere a nostre spese. Non ammetto neppure che essa sia al
contempo un atto di accusa contro un intera comunità “slava”,
che in realtà è composta, come già accennato, da una parte di
croati e dall’altra di sloveni. In nome di questa volontà di
pacificazione interna, l’Italia tende a occultare o tralasciare una
parte della storia: insiste sulle violenze e sui soprusi subiti, e
anzi li amplifica a dismisura, ignorando i risultati delle ricerche
storiche più recenti. Lo dimostra chiaramente il discorso del
presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del
giorno del Ricordo del 2007: già nello scatenarsi della prima
ondata di cieca violenza in quelle terre, nell’autunno del 1943, si
intrecciarono “giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo
nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento” della
presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia
Giulia. Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un
disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato
di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una “pulizia
etnica”. Quel che si può dire di certo è che si consumò – nel
modo più evidente con la disumana ferocia delle foibe – una delle
barbarie del secolo scorso.
Per ciò che riguarda noi, vorrei
specificare che il cosiddetto “disegno annessionistico”, di cui
il presidente Napolitano ci ha accusato, riguarda la riconquista
nella lotta insieme agli Alleati del territorio del litorale sloveno
che l’Italia aveva ottenuto Dopo gli accordi di Londra nel 1915 e
definitivamente alla fine della Prima guerra mondiale. Per fortuna
questi toni forti, e per certi versi offensivi, si sono attenuati e
quest’anno, nel febbraio 2009, il presidente della Repubblica, dopo
un discorso del presidente della Slovenia Danilo Turk, ha preso in
parte in considerazione la memoria slovena, dicendo che l’Italia
ricordava anche ciò che il fascismo aveva fatto alla popolazione
slovena. Tuttavia non basta ricordare, occorre anche spiegare,
soprattutto alle giovani generazioni che di questi fatti sanno poco o
niente. Un buon punto di partenza per una memoria che tenga conto di
tutte le vicende del confine orientale – come reciterebbe a rigore
la legge – potrebbe essere la relazione della Commissione
storico-culturale italo-slovena, frutto di una collaborazione tra
storici di entrambe le nazionalità che per diversi anni hanno
lavorato congiuntamente sugli aspetti più controversi della storia
di questa regione di confine tra il 1880 e il 1956. Bisognerebbe
pubblicare la relazione e presentarla nei libri scolastici di storia,
come hanno fatto la Francia e la Germania per le loro vicende, in
modo da creare un punto di incontro per i giovani che spesso
conoscono soltanto una parte della storia, quella nazionale. Credo
che su questi avvenimenti dolorosi ci sia la necessità di fare
chiarezza per chiudere i conti con il passato, altrimenti il rischio
è di ricordare solo la “barbarie slava”, dimenticando quella
italiana. Eppure, i criminali di guerra italiani non sono mai stati
né processati né giudicati per gli eccidi e le devastazioni
inflitte alle popolazioni delle zone di confine. Ha ragione Paolo
Rumiz quando dice che l’Italia è l’unica nazione europea che ha
ben due giorni dedicati alla Memoria, ma è anche l’unica a
servirsene non per chiedere scusa ma per esigere scuse. In questo
avrebbe molto da imparare dalla Germania, che si è impegnata a tener
vivo il ricordo delle vittime e ha riconosciuto le propie colpe, non
solo con commemorazioni pubbliche, ma anche con la ricerca storica.
Al contrario,in Italia stenta tuttora a farsi strada un vero
dibattito sulle responsabilità nazionali nella Seconda guerra
mondiale e si sottovalutano il ruolo del fascismo e i suoi crimini.
L’”Espresso”, già il 27 marzo 2003, scriveva: “Da noi un
lato l’Italia, che in un primo momento aveva visto con favore la
seconda Norimberga, non aveva però nessuna intenzione di consegnare
i nostri generali a partire da Roatta, a loro volta sotto accusa per
crimini commessi come alleati dell’Asse”. Io mi permetterei di
dire che si tratta pure di una questione di onore. Significativamente
tra i libri italiani che trattano i crimini commessi dai fascisti
durante la guerra, uno si intitola appunto Italiani senza onore di
Costantino Di Sante. Perché non si portano i ragazzi nei campi di
concentramento italiani, come quelli di Rab, Gonars, Visco,
Chiesanuova, Monigo, Grumello e altri ancora? E’ giusto che i
giovani vadano a visitare le foibe, ma prima devono avere la
possibilità di conoscere e studiare tutta la complessa situazione
storica. Andare solo alla Risiera di San Sabba, che fu voluta dai
nazisti, non basta e perpetua quell’immaginario descritto da Paolo
Rumiz: “Innocenti noi, barbari loro. Deponiamo corone d’alloro e
torniamo a casa contenti di essere stati, ancora una volta, italiani
brava gente”.
Boris Pahor
Non si può mai ignorare il dolore
degli altri.
Bruno Crainz