3 luglio 1916
3 luglio 2016
Fra le ondulazioni dolcissime
dell’Altipiano, vestite del folto pratile, il trillo dell’allodola
nell’estate è segnato da una nota di apprensione paurosa: un
bizzarro spaventapasseri fa venir l’itterizia alle povere creature,
avvezze al deserto silenzio della vegetazione. Esse lo credono un
mostro giallo e maligno, che guarda l’universo con l’occhio
dell’augurio funebre: ma egli non è che il vecchio e bravo
capitano, a cui il Ministero ha tardato la promozione, a cui la
guerra ha cosparso di peli e di sudiciume la faccia, ha impolverato
le scarpe e bisunto il vestito. Come un palo sgangherato egli sorge
dal verde, le tasche rigonfie di carte e di oggetti di prima
necessità, gli abiti d’un color frusto e pieni di ogni sorta di
pataffie, la giacca corsa da funicelle che reggono il cannocchiale e
il fischietto e la borsa, la cravatta sollevata nel collo, la faccia
malata e stanca. Guarda con tristezza la montagna da cui sgorga la
rabbia nemica, porta senza gioia la medaglia della campagna
coloniale, aspetta senza desiderio la colazione. Mentre le granate
fischiano paurosamente egli è ritto nel prato, calmo perché ha
fatto quanto poteva per riparare i suoi soldati, e pensa all’ardua
prova che il decadere della vita gli serba, dopo tutti i disinganni e
le amarezze di questa.
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